L’ostinazione del Bassotto, nuovo centro sportivo a Busto Garolfo
Siamo nella pianura indistinta che lambisce l’area metropolitana milanese, ma ci si potrebbe trovare anche in altre zone d’Italia. Si mescolano capannoni e villette, strade anonime e rotonde, tracce di natura rurale, grandi infrastrutture tecnologiche e angoli di abbandono. In questa condizione di limbo narrata ormai da decenni e che sta sotto il nome di periferia (la “Capannonia”, di Michele Serra o la “Varrano” di Niccolò Ammanniti, tra le tante), gradualmente la città sembra convergere: la città delle persone comuni che non possono permettersi il centro oppure che qui sono nate e lavorano e mantengono qualche radice nel luogo. Più che un paesaggio è una tensione messa in atto, come un brano rap in cui dissonanze e consonanze vengono martellate da un ritmo costante, una litania. Ed è appunto in questa condizione di tensione che si possono sviluppare occasioni di trasformazione. Sono, per esempio, tentativi di costruire interruzioni, eccezioni ai criteri di puro pragmatismo e di rispetto degli standard produttivi comuni. Ma sono operazioni da fare con una certa cautela, resistendo alla tentazione del gran gesto che erroneamente ha rappresentato l’unico antidoto utilizzato senza successo per mitigare il grigiore e la tristezza delle periferie.
Così accade che tra i suoli rurali e quelli urbani di Busto Garolfo, cittadina nell’area ovest del milanese, si configura la possibilità di creare un polo aggregativo di una certa importanza basato su quello che è un pilastro sociale della contemporaneità, lo sport. Bisogna progettare un centro sportivo a compimento di un anonimo comparto di capannoni che spesso sono uguali a mille altri eppure ognuno con la sua breve storia. Infatti, poco distante, a Casorezzo, alcuni edifici industriali di Luigi Caccia Dominioni e di un giovane Cino Zucchi, rappresentano particolari oggetti di affezione, fortuiti incontri con biografie e sensibilità a cui guardare con molto rispetto. Tuttavia non sono relazioni fisiche e dirette, ma suggerimenti, impliciti stimoli a operare al meglio.
La fondazione di questo luogo deve far fronte quasi eroicamente tanto allo svuotamento della varietà di funzioni un tempo attribuite ai centri storici e alle loro piazze quanto al dileguarsi del senso di appartenenza di un’area industriale priva di ogni altro attributo fisico che non nasca da un puro criterio economico. Anche il programma del centro sportivo non si sottrae alle necessità di compressione degli spazi ed ai criteri di massima economicità. Nonostante ciò la prova collettiva, tra amministratori, gestori e progettisti è stata quella di andare oltre, di fornire un barlume di qualità al nuovo lavoro, un rinnovato senso pubblico. Nello schema rettangolare e compatto del lotto un lungo edificio (80 metri) di ingresso, soprannominato “il bassotto”, condensa alcune doti essenziali: fornire una conclusione ad una grande area a parcheggio pubblico, segnalare la nuova funzione, mitigare le “bolle” o tendo-strutture che definiscono comunemente i campi coperti per il calcetto e il beach-volley, caratterizzare i pochi, residui spazi aperti. Il programma dell’edificio principale contiene un Ristorante, la Reception, un Bar/club-house e gli spogliatoi, serviti in lunga sequenza da un corridoio controllato visivamente dalla reception. A completamento del centro, oltre ad una cintura esterna alberata, ci sono tre campi coperti e due scoperti dedicati in gran parte al calcio, la disciplina che appartiene al background professionale dei gestori. Ma il centro rappresenta anche molto altro. Luogo di riferimento per le famiglie e i loro figli, stagionalmente può ospitare eventi temporanei anche di grande afflusso. Ecco quindi l’esigenza nata durante il progetto di un ampio cortile in fregio ad una pista ciclabile. Affacciato su questo cortile emerge quello che potremmo definire la testa del bassotto. Di fatto un semplice schermo o cornice rettangolare larga circa 12 metri per un’altezza di 4, in lieve aggetto, che contiene la sala del ristorante con una balconata e balaustra a disegno che estende la sala del piano rialzato verso l’esterno. La struttura è interamente prefabbricata per ridurre i tempi di costruzione e quindi contenere i costi. Il caso ha voluto che il costruttore sia lo stesso che collaborò a lungo con Luigi Caccia Dominioni, prima ricordato. Ne è nata una soluzione peculiare del classico pannello in cemento faccia a vista, il più standard degli elementi industriali. Con un unico oggetto si risolvono problemi di isolamento termico, di trattamento estetico e di relazione col contesto. Una speciale pigmentazione agli ossidi di ferro ed un trattamento finale con resine naturali consente di realizzare quella che in prima istanza sembra un’impresa ardua: evitare ogni tipo di rivestimento “estetico” successivo e tenersi in cantiere un materiale praticamente quasi “finito”. Ad ampie campiture scure, quasi basaltiche, si alternano radi moduli colorati nell’unico colore giallo-verde presente nel complesso in varie declinazioni. I tagli dei pannelli rimandano ad una rigorosa sequenza di “steli”, come in un’infrastruttura di ingegneria civile, un cavalcavia, ma tuttavia producono un tamponamento disegnato con cura e con qualche licenza. Anche le pavimentazioni, interne ed esterne, sono tutte variazioni sul tema del cemento. Questa idea di compressione e riduzione del lessico risuona anche in alcuni dettagli interni, come la scala metallica a ventaglio, unica forma in grado di risolvere l’equazione tra poco spazio in pianta e un ampio interpiano. O nella semplice ed efficace illuminazione degli esterni con lampade a luce radente. Nessun gioco di prestigio, quindi, ma un’umile riflessione critica sulle risorse messe a disposizione. Il bassotto ha la capacità di infilarsi in ogni tana, fatto che gli comporta di essere un segugio deforme. Così accade che handicap e benefici sono quasi sempre bilanciati. Anche qui i limiti coincidono con la condizione di possibilità stessa dei nuovi artefatti.