Fotografo gli spazi, con particolare attenzione all’architettura, urbana e industriale, perché l’architettura disegna il nostro stare insieme quotidiano, il nostro vivere gli spazi. Alla fotografia è affidato il compito di ritrarre la persona attraverso l’architettura anche in sua assenza, di costruire una forma di antropologia culturale dello spazio abitato e attraversato dalle persone e dalle società umane. La relazione dialettica che si instaura tra uno spazio urbano e colui che lo attraversa lo percorre o lo esplora permette di cogliere e vedere gli spazi della città che si dilatano, gli spazi in transito, gli spazi in divenire, gli spazi dalle identità perdute che si aprono sul futuro.
È importante in una città accorgersi del tempo all'opera.
Questa comprensione della città, o di un pezzo di essa, questo dialogo tra le diverse anime, permette di accogliere i nuovi elementi del paesaggio metropolitano apparentemente sorti in opposizione alla cultura urbana convenzionale e non rifiutare questi ambiti nel progetto della città futura.
L'obiettivo è quello di far divenire la città la concreta condizione spaziale del vivere presente, lo snodo tra l'archeologia e il futuro.
Il mio modo di avvicinarmi e sentire gli spazi urbani e i suoi abitanti potrei definirlo un avvicinamento in punta di piedi, un modo profondo e attento. Profondo, nel senso che cerco di capire le dinamiche che trovo all'interno di un determinato ambiente e attento, perché cerco sempre di essere rispettoso dei diversi modi di sentire e percepire/vivere lo spazio. Tentando di non confondere il contenuto con il contenitore, il racconto con il suo mostrarsi.
Con questa modalità mi sono avvicinato al quartiere Bellavista, oggetto del nostro lavoro.
Nella storia di questo quartiere, nei racconti che mi sono stati fatti, nei chilometri percorsi per guardare, osservare, scorgere da vicino quello che mi stava intorno, ho ritrovato una profonda corrispondenza tra la vita presente e passata del quartiere e il mio approccio alla comprensione.
Ho incontrato un quartiere e una popolazione particolarmente attiva e inclusa nelle dinamiche che si svolgono al suo interno, presenti fin dai suoi esordi a inizio anni Sessanta.
Il quartiere e i suoi abitanti si compenetrano e vivono in una dinamica assolutamente “comunitaria” senza gerarchie di sorta tra le persone, gli ambienti e gli edifici che lo costituiscono. Tutto vive e si muove in una dimensione di partecipazione, di essere parte di una stessa identità. Senza gerarchie e senza esclusioni. Non esistono (o quasi) le recinzioni, Tutti sanno dove abita una persona, piuttosto che un'altra. Magari non sanno dov'è un civico, ma sanno perfettamente chi ci abita. Il quartiere lo puoi attraversare seguendo i percorsi indicati o seguendo un disegno o una necessità che è solo personale. Piena libertà di approccio e una ricchezza infinita di posti di aggregazione di scambio e di condivisione. Tutto viene vissuto nella considerazione e nello sforzo di comprendere che il luogo dove abiti è un luogo comune nel senso più nobile del termine.
È un luogo di tutti. Non è di nessuno, è di tutti.
La città diviene una “cosa” oppure “casa” collettiva dove si è accompagnati dentro la narrazione della storia. Gli spazi parlano attraverso il registro del vissuto, ponendosi come specchio dell’umanità, la loro principale vocazione è territoriale, mira a creare identità, rapporti simbolici e patrimoni comuni.
Si forma così un paesaggio che si perde nel passato ed emerge nel presente, un sentimento del tempo che passa e che dura contemporaneamente.
L'importante è l'insieme, l'importante è il tutto, l'importante è la condivisione, la comunità. Senza divisioni, senza gerarchie. Ogni cosa rappresentata vive dello stesso trattamento, tutto è parte di un insieme, ogni pezzo fa sì che tutto l' insieme restituisca l'anima del luogo.
Il quartiere Bellavista risponde pienamente al senso e agli scopi delle politiche abitative oppure di social housing portate avanti per alcuni decenni dalla società Olivetti (anche se in questo quartiere in maniera diversa rispetto ad altri episodi come ad esempio Canton Vesco). La riflessione che ne era alla base era quella di dare a tutti bellezza e qualità per migliorare il vivere quotidiano. (cito a questo proposito il titolo di un libro di un architetto come Richard Neutra che nella traduzione del 1956 delle Edizioni di Comunità scrisse un testo dal titolo “Progettare per sopravvivere”). I disegni originali dei progetti del quartiere testimoniano questa forma generatrice di sincretismo. Il valore del “segno” è condiviso con il valore umano e della costruzione.
Un altro episodio di condivisione di bellezza e bene-essere, alla ricerca di quel crinale oltre il quale il paesaggio smette di essere un limite e diventa un'emozione, proprio come si fa quando si lavora ad un progetto fotografico come questo.