Una casa, una casa isolata, sebbene compressa nelle frange di una cittadina di campagna, è sempre una sorta di sfida ai tempi che viviamo, dove tutto parla dell’impossibilità di coltivare ancora il mito borghese della villa autonoma. Un sogno che parla molto ancora in italiano, un sogno di una modernità vista con le inevitabili inflessioni locali dietro le quali ogni buon analista legge interi brani di costume, di società, di immaginario collettivo. Ma progettando una casa, questa casa, per me si è trattato di sostenere in parallelo la gestazione di un edificio fortemente voluto da clienti affezionati e insieme la prematura scomparsa della mia partner e cara moglie. Un’esperienza estrema, dura, che non può essere tenuta fuori da una qualunque descrizione, qualcosa che è entrato persino nelle pieghe di questioni molto impersonali e forse per questo ancor più potente. Non si tratta solo di desideri e frustrazioni degli abitanti, del loro modo di interpretare questa scelta e questo luogo, ma a maggior ragione anche dei loro progettisti. Come conciliare quindi la scena tragica di un repentino venir meno con l’ottimismo che solitamente spinge a costruire una casa? Fu inevitabilmente una prova di forza. Tutto partì dall’esigenza di modificare gli spazi domestici di una numerosa famiglia in via di ricomposizione e dall’occasione concreta di un raro terreno disponibile per la costruzione. Le richieste erano semplici: “Vogliamo una villa urbana”, compatta, semplice da gestire, possibilmente con diversi piani in modo da poter suddividere gli spazi facilmente e con poco giardino intorno, perché stiamo diventando più anziani e però vogliamo continuare ad occuparci della casa e dei suoi piccoli spazi aperti. Qualche connotazione affettiva, l’uso del legno e della pietra, il tetto a falde che ricordano loro l’amata montagna dove spesso, quando possibile, i proprietari ritornano. Le varianti, le prime verifiche e presto il progetto arriva e, come sempre, deve fare i conti con molti limiti: il terreno rettangolare molto piccolo, la vicinanza delle monotone abitazioni dei vicini e della strada, una serie di ineliminabili pali della luce, il sacrificio di un imponente filare di lauroceraso.
E poi i limiti diventano anche gli imprevisti problemi della famiglia, i rallentamenti nelle scelte, e per finire la malattia di uno dei progettisti. La casa, come bene ricorda Inaki Abalos (2009), viene costantemente definita da un rapporto tra soggetto e oggetto, tra abitante e architetto, e in questa fenomenologia si include tutto. La scelta del legno strutturale, del sistema a pannelli x-lam consente di lavorare sulla scatola costruendo velocemente, fermo restando che il basamento dell’edificio è sempre in cemento quando si scava il terreno. Ecco che per risposta alle dimensioni date si generano le prime inflessioni in pianta per gli accessi pedonali e carrai. Nello schema compatto a forma di C, che rimanda a migliaia di altre case più o meno nobili, si creano le condizioni per mitigare la luce da sud e per creare una piccola stanza all’aperto affacciata al minuscolo giardino. A nord la parziale copertura della rampa del garage crea un pontile-terrazzo dove nelle caldi sere di estate ci immaginiamo le cene di famiglia a lume di candela. Così arriva il legno anche in esterno, come scelta coerente alla forma del pontile-terrazzo. Il lato a nord della casa è di qualche grado ruotato a ovest, consentendo al sole di giugno di pennellare la superficie di un rivestimento in pietra, una profiroide grigia alpina che ricorda l’ardesia ligure, che in inverno potrebbe negli anni coprirsi di una leggera colonia di muschi, come avevamo visto succedere ad un lato della chiesa di Orta San Giulio, altro luogo di affezione. Si collezionano sentimenti di fianco ad ostinati conteggi, a verifiche tecniche, per far quadrare tutto, ma senza rinunciare a ciò che è importante, perché la casa è importante, è la forma di una vita. E anche di una morte.
È materia che si trasforma. Così il tetto si copre di tegole grigie, simili alla pietra porfiroide e a sud, l’uovo di colombo della sostenibilità, le tegole fotovoltaiche che con ugual forma e colore si mimetizzano nel manto di copertura. Ora persino l’avanzatissima Tesla si affaccia a questa grande “invenzione”. Un tetto di ordine inferiore nasce a piano terreno da un’esigenza pratica: non bagnarsi quando piove. Una “gonnellina” come si usa dire in gergo da architetti (o da carrozzieri) accompagna quasi tutto il perimetro della casa fino a diventare anche la tettoia di ingresso, la cui gestualità di benvenuto, seppur con qualche voluta esitazione geometrica, è evidente e segnata dai due cavi a cui si appende. Con la pietra porfiroide si completano le pavimentazioni a contatto della strada e una parte della recinzione. Pochi e calibrati dettagli sono in realtà il frutto di molti avanti e indietro dovuti ai molti imprevisti. Tutto il piano superiore si trasforma in un appartamento-studio avvolto dal tetto in legno con terrazze a sud con vista sul giardino. Potrei citare molte case che ci hanno ispirato per forma o per materia, per stato d’animo o per dimensioni, ma le tradiremmo tutte scientificamente e in definitiva rimane la riservatezza di un mondo intimo, vulnerabile e proprio per questo da difendere. Forse le uniche case del passato che possono resistere a questa ritrosia sono la Casa Cattania ad Arenzano di Marco Zanuso, con le sue pietre precise, e soprattutto la Villa Colli di Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini, nel Canavese, dove in una veloce visita nella vicina Ivrea, per altri motivi incappammo in quel gesto sicuro, di un grande tetto in pietra con sotto lunghi terrazzi aperti sulla campagna, un mito o forse un sogno. Una casualità indimenticabile.
Le foto scattate dopo la morte di Anna sono state fatte portando in scena alcuni oggetti a lei cari. Le parole, diceva Borges, sono simboli che postulano un ricordo condiviso. Così forse vale anche per questi “arredi”. In effetti avevamo portato la sedia a dondolo modello 572 di Cassina attribuita a Gio Ponti, che si intravede sullo sfondo di qualche scatto. Perché era a sua volta il ricordo di sua nonna, perché era il segno di un’antica felicità e serenità. A quel punto non era più un oggetto di design, ma l’impronta di uno sguardo che ora si unisce a quello degli abitanti. Ci è costata non poca fatica impostare questa e altre foto. Non per questioni estetiche, ma per un ovvio sentimento di nostalgia. Uno struggimento, a ben vedere. Attraverso questo rito ci sembrava di tributarle una specie di omaggio in accordo con gli abitanti. La famiglia del signor G ha salde radici culturali nella teologia cattolica e tuttavia ama anche la poesia-canzone popolare di Giorgio Gaber, ecco perché potrebbe condividere il testo gaberiano del 1970 noto come “preghiera” da cui estraggo una frase semplicissima a conclusione: “Signore delle domeniche, prova ad esserlo anche del lunedì e di tutti quei giorni tristi che ci capitano sulla Terra”. Così sono andate le cose.